A PASQUA SALVA UN PASTORE: COMPRA UN AGNELLO!

Da Michele Dallapiccola

Capita spesso di imbattersi sui social, specie nel periodo natalizio o pasquale, nel simpatico MEME riportato nel titolo sopra che ci invita a mangiare un agnello per salvare un pastore. Che il consumo di carne ovina non sia mai stato al centro della dieta trentina è un dato assodato. Le recenti mode alimentari, la pietà verso gli animali e le potenti campagne dei media anche di qualche leader politico contro il consumo di carne, non hanno certo giovato al caso.

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Ma facciamo un passo indietro con un po di storia. La terra trentina, oggi tanto favorevole alle sue genti come impareggiabile richiamo turistico, non lo è stata altrettanto in passato. I campi ripidi, la buona stagione breve e gli esigui spazi concessi dai boschi osteggiarono in maniera decisiva lo sviluppo agricolo decollato solo qualche decennio fa grazie ad una imponente e specifica meccanizzazione e fondamentali aiuti pubblici. 

È ormai perduto il ricordo un passato nel quale  l’allevamento di sostentamento era l’unica opzione di sopravvivenza, condotto in maniera capillarizzata tanto che quasi ogni famiglia nei paesi fino al dintorni della città possedeva capi di bestiame. Nella stagione estiva, ovvero nel momento in cui il contadino si trovava maggiormente impegnato dovendo approfittare della buona stagione per approntare le derrate con le quali avrebbe superato l’inverno, le vacche venivano mandate in malga sui pascoli non sfalciabili. 

Lo sfruttamento dei pendii ancor più ripidi, inagibili ai bovini, trovava invece naturale l’utilizzo da parte di greggi di capre e pecore gestite da forme di conduzione cooperativa o societaria. I proprietari mandavano al pascolo le bestie pagando la loro quota attraverso “la part”, metà della figliolanza del gregge per intenderci. I vari padroni, per riconoscere i propri animali erano e sono tuttora soliti contraddistinguere le pecore di loro proprietà tramite la “nova”, un pezzetto di orecchio asportato in forma diversa a seconda del proprietario, chi una tacca rotonda a destra, chi una quadrata a sinistra, chi due, chi una per parte.

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Fu così che nacque la figura del “pastore delle pecore” che durante l’inverno non smetteva di lavorare rispetto al suo collega “malgaro”, poiché, mentre le vacche ritornavano nella stalla dei rispettivi proprietari, le pecore rimanevano a lui in custodia. Egli allora prendeva alle sue dipendenze uno o due “servi”, ragazzi malpagati alla fine della stagione invernale e si spostava in Veneto dove le precipitazioni nevose sono solitamente scarse, a “far l’inverno giù per l’Italia”. In primavera gli agnelli maschi non destinati alla riproduzione e nati durante l’inverno, venivano castrati e dopo aver trascorso l’estate ad ingrassare in montagna venivano restituiti nell’autunno successivo, ai loro rispettivi proprietari che, finalmente, potevano preparare quella specialità’ trentina conosciuta come “castra’ coi capussi”, castrato arrostito a fuoco lento con il cavolo. In quegli anni la conservazione era affidata al clima, alla stagione, al periodo che con i primi freddi dell’autunno e la collaborazione di una buona salatura ne avrebbe consentito una più prolungata durata. La tipologia del prodotto era unica, il castrato per l’appunto. Nella sua fase da latte avrebbe reso troppo poca carne e le femmine andavano preservate quali preziose potenziali fattrici.

E oggi? Di fatto l’allevamento ovino è sopravvissuto grazie alla grande attitudine di questi animali a preservazione i pascoli specie di altitudine assolvendo in questo allo scopo richiesto dall’assegnazione dei premi PAC.

Il secondo grande fattore che ha salvato questo settore produttivo è stata la presenza dei mussulmani. Macellare un agnello per questa popolazione oltre  unad essere un’abitudine sociale ancora piuttosto diffusa assolve anche ad una valenza religiosa. Cosi, quelle persone tanto affezionate alle tradizioni nelle loro terre di origine, hanno trovato facile punto di collegamento in una analoga tradizione millenaria locale: la pastorizia. E poichè qui è praticamente scomparsa la tradizione di castrare in primavera i nati nell’inverno di consumarli soprattutto in autunno da parte dei locali, il pastore si rivolge direttamente ai pochi commercianti sul mercato italiano. Credo stiano sulle dita di una mano – mio padre era uno di questi – e tutti aspettano con grande apprensione e soddisfazione la festa islamica del EID KABIR, detta del sacrificio, una tra le più importanti ricorrenze religiose del mondo islamico.

Il resto di quanto sopra descritto non ha subito significativi mutamenti provocati dal trascorrere del tempo e nonostante i “pastori delle pecore” siano poco più di una ventina, calpestano ancor’oggi con le loro greggi i greti dei nostri torrenti e risalgono ancora, durante la stagione estiva, le nostre cime alla ricerca dell’erba più verde. Il reperimento del pascolo è parzialmente facilitato dal fenomeno di abbandono delle malghe che ha lasciato spazio agli ovini in quelle malghe per bovini caratterizzate da accessi particolarmente difficoltosi che ne determinarono precoce dismissione. Diviso in due grandi raggruppamenti l’allevamento delle pecore si compone di una parte stanziale ed una transumante. Nel complesso le due componenti danno una numerosità di circa 30000 capi: circa 5000 stanziali, il resto in transito sfruttando pascoli marginali dei quali abbiamo parlato poco sopra, avvalendosi nei loro fini produttivi più’ della tradizione che della scienza.

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Oggi il pastore è solitamente proprietario del gregge e se conduce qualche capo per conto terzi, e solamente arrotondare, fare un favore ad un amico od avvantaggiarsi della collaborazione degli altri proprietari nei momenti di maggior lavoro quali controlli sanitari o tosatura che pure è ormai un’operazione di valenza sanitaria. 

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La lana infatti non ha più praticamente nessun valore commerciale dunque la tosatura serve a prevenire patologie dermatologiche ectoparassitarie (rogna e zecche) praticamente endemiche su questo tipo di bestiame. Ciò è accaduto perchè fibra della lana delle nostre pecore, che hanno attitudine esclusiva alla produzione della carne, è corta e grossa e non può competere nella qualità per la filatura con quella lunga e fina delle razze australi da lana. E’ anche opportuno ribadire che le pecore trentine non producono che il latte per il proprio agnello. 

È un fatto evidentemente non notorio al punto che il Presidente del consiglio Regionale, qualche tempo fa , mi invitava riflettere sull’opportunità di reddito che dà il latte di pecora (sigh!). In merito alla produzione di latte invece va precisato che questo compito è egregiamente assolto dal settore caprino. 

Per il Trentino si tratta però di qualcosa di non tradizionale ma importato probabilmente dall’Oltralpe francese. Parliamo di un allevamento tecnologico, con animali che passano il loro tempo prevalentemente dentro a strutture dedicate e che vengono gestite secondo i più moderni dettami della zootecnia. 

La carne in questo caso è un sottoprodotto d’allevamento. Per produrre latte si deve avere un parto che darà la luce a femmine destinate alla rimonta e maschi che nel periodo primaverile sono consumati come capretti. A scopo riproduttivo come becchi, di questi ne basta l’1 % circa e dunque in questa stagione l’offerta abbondante legata ai parti ne determina l’abitudine al loro consumo durante il pranzo pasquale.

Ma questa è un’altra storia.1585763388216-0bdec22f-3c5f-48ec-a075-252b2b87807b_-01Antonio, Civezzano 1989